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Storie di terremoti, selfie e macerie umane

2' di lettura Senigallia 06/09/2017 - “No selfie. Luogo di rispetto”. Leggo il cartello e all’istante rimango interdetto. Siamo nel cuore di agosto e transito per Amatrice in moto. Impossibile non fare una sosta di qualche minuto. Mi affaccio verso quello che era il centro del paese e vengo attratto da quel cartello anomalo, probabilmente il più intelligente che abbia mai visto esposto lungo una pubblica strada.

Un Vigile del Fuoco mi racconta che erano centinaia le persone che con le dita a V e il sorriso ebete si facevano il selfie con le macerie a fare da sfondo. Allora è nata la necessità di affiggere quei cartelli in più punti di Amatrice. La cosa che più mi colpisce è l’insensibilità di chi ha pensato di potersi fare un selfie nel cuore di quella tragedia. Non è quello un luogo dove ti viene neppure pensato. Ci sono stati centinaia di morti, è una terra di silenzio e di preghiera, se hai la fortuna di credere in qualcosa o in qualcuno.
È un pò come scattarsi un selfie davanti al carro funebre durante un funerale o sul luogo di un incidente stradale. Non è una legge scritta a impedirtelo ma una legge interna, morale, etica, quella che regola la nostra sensibilità. Eppure la tentazione di scattare, da quando abbiamo lo smartphone in tasca è sempre dietro l’angolo.

Non ho nulla contro i selfie, ho invece tanto contro gli imbecilli, perché a volte i giri di parole servono a poco e di imbecilli si tratta. Sia ben chiaro, non sono un moralista e detesto i luoghi comuni. Fare una foto alle macerie è lecito. È un ricordo triste che resta, una testimonianza che ci porteremo dietro nello smartphone e nel cuore. Il selfie no. Il selfie funziona all’Aquafan, al Summer Jamboree o al termine di una cena tra amici. Il selfie presuppone il sorriso ed è incompatibile con qualsiasi forma di tragedia. Sembra ovvio ma così non è.

Faccio il giornalista e non il sociologo, ma un’idea me la sono fatta sul perché di certe cose. Siamo talmente assuefatti alle tragedie che abbiamo perso il senso della profondità del dolore.

Si vive in superficie. Tutto è plastica. Ci indigniamo per un rigore non concesso alla nostra squadra e non c’incazziamo nella stessa misura con chi si scatta un selfie tra le macerie.

Chiudo con un ricordo agghiacciante. Estate 2015, sono con mia moglie in visita ad Auschwitz.
Due si fanno un bel selfie di fronte all’ingresso della prima camera a gas. Pollici rivolti verso l’alto e sorriso stampato sul volto. Per fortuna non erano italiani ma giapponesi. Amara e triste consolazione.






Questo è un articolo pubblicato il 06-09-2017 alle 23:59 sul giornale del 08 settembre 2017 - 2329 letture

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