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\'Viva Santoro!\' La guerra dei 60 anni in Palestina, fra stragi e tabù

7' di lettura Senigallia 20/01/2009 - In una città, come Senigallia, che nel passato ha conosciuto l’obbrobrio di un ghetto ebraico e di un lager nazi-fascista ed ha dato i natali ai due fratelli ebrei Ugo e Rodolfo Mondolfo, intellettuali perseguitati dalla legislazione razziale, affinché certi orrori non si ripetano, ho avvertito il dovere morale di pubblicizzare queste osservazioni.


Osservazioni utili nel contesto politico italiano troppo spesso distratto o arroccato su generiche dichiarazioni di intenti, con il significativo esempio del transnazionale Marco Pannella, che in questi giorni non ha trovato di meglio da fare dello sciopero della sete per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inefficienza della commissione di vigilanza della RAI.

La trasmissione televisiva “Anno Zero”, condotta giovedì 15 gennaio da Michele Santoro sulla Rete 2, mi offre lo spunto per alcune doverose considerazioni sulle cause macroscopiche dell’annosa questione palestinese e dell’ennesimo sanguinoso eccidio, troppo spesso sottaciute, e che invece devono essere evidenziate per fornire una descrizione più trasparente dei tragici fatti, contribuendo così a rendere giustizia alle numerose vittime e forse ad accelerare il necessario processo di pace.


Sorvolando sulla ricorrente diatriba intorno alla faziosità delle produzioni giornalistiche, ho fra l’altro pienamente condiviso la veemente e sincera affermazione del conduttore, quando ha negato la definizione di guerra ad un evento militare, che nei primi venti giorni di guerra contava da una parte circa un migliaio di vittime, fra cui trecento bambini, e dall’altra una decina, uccise anche dal cosiddetto “fuoco amico”. Si tratta cioè di un’altra delle ricorrenti carneficine di questo interminabile conflitto che, al di là dei disperati, faziosi o, peggio, cinici commenti di protagonisti ed osservatori di turno, più o meno politicizzati, affonda le sue radici nelle originarie cause storiche dell’ostilità, risalenti all’immigrazione ebraica della prima metà del Novecento, che frequentemente sono omesse o sottovalutate dagli analisti, quasi fossero argomenti tabù che preludessero alla delegittimazione ed al conseguente abbattimento dello stato d’Israele.

Liberando subito il campo da questo apocalittico quanto utopistico scenario futuro, che lo scrivente rifiuta come un disastro umanitario da evitare, si deve però preliminarmente osservare che non tutto ciò che è giuridicamente lecito o storicamente ineluttabile è anche eticamente giustificabile e, di conseguenza, universalmente accettabile. Non sempre cioè gli esiti del diritto positivo e degli equilibri politici si accordano con i principi del giusnaturalismo moderno, coniati dal Grozio fin dal Seicento e poi variamente ripresi dalle legislazioni di grandi organismi internazionali, sostanzialmente sintetizzabili nel cosiddetto undicesimo comandamento cristiano del “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”.

Per comprendere le profonde motivazioni dello scontro occorre quindi risalire ai primi anni del Novecento, quando nell’attuale territorio israelo-palestinese erano presenti circa 25.000 ebrei autoctoni, circa il 5% del totale, approssimativamente composto da 450.000 arabi e 50.000 cristiani, come si può evincere dai dati dell’enciclopedia telematica Wikipedia, ai quali volutamente si attinge per la loro verificabilità e neutralità. In quegli anni il neonato movimento sionista, con l’intento di dare una sicura patria comune ai tanti ebrei ancora ingiustamente perseguitati o emarginati in alcuni paesi, mete della diaspora, aveva preferito alla disabitata Terra del Fuoco argentina la biblica “terra promessa” palestinese, ancorché diffusamente insediata e sede della terza città santa per i maomettani: Gerusalemme.

Fu così che iniziarono immigrazioni sempre più massicce, inizialmente accolte dagli arabi e favorite dalla potente Gran Bretagna - prima interlocutrice privilegiata e dal 1920 titolare di Mandato della Società delle Nazioni -, la quale nel 1917 con la “Dichiarazione Balfour” riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di \"un focolaio nazionale\" in territorio palestinese – non un vero stato o nazione - con l’impegno di non danneggiare i \"i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina\". Gli stessi inglesi, tramite il Libro Bianco del 1922, rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la “Jewish National Home in Palestine” non era da intendersi come una nazione ebraica.

L’alto numero di nuovi arrivati in zone già densamente popolate e la sistematica contiguità degli insediamenti ottenuti con acquisti, che, adottando la legislazione inglese, non tutelavano i precedenti diritti tribali consuetudinari di possesso e coltivazione, sollevarono però le prime reazioni nazionalistiche della popolazione araba, culminanti in una vera e propria belligeranza quando arrivarono le moltitudini di ebrei che fuggivano dalle persecuzioni naziste, prima e durante il secondo conflitto mondiale.

Ormai era profondamente mutato il rapporto demografico fra popolazione araba e israeliana, che contava circa 600.000 unità nel 1947 pari al 50% degli islamici, di conseguenza, anche grazie agli aiuti finanziari del movimento sionista internazionale ed all’appoggio del nuovo alleato statunitense, la prima guerra arabo-israeliana vide la sconfitta dei palestinesi e la creazione del nuovo Stato di Israele, esteso approssimativamente come l’Emilia-Romagna e riconosciuto dall’ONU nel 1948. Cominciò così per molti palestinesi un periodo di esilio o di confino nel proprio stesso paese in campi-profughi, cioè bidonvilles in cui mediamente famiglie di una decina di persone, con vecchi e bambini, possono convivere in bilocali o monolocali fatiscenti addossati l’uno all’altro, dopo avere dovuto abbandonare le proprie normali abitazioni, ora insediate dagli immigrati israeliani.

Questa penosa realtà, aggravatasi con i territori occupati nel 1967 e che si protrae ancora oggi, ed è stata personalmente constatata dal sottoscritto nel 1979 allorché era vietato dalle autorità israeliane di scattare foto pena la perdita del permesso di accesso nel paese, è una delle maggiori cause di ostilità, come dichiarò il giovane terrorista palestinese, nato in un campo-profughi ed autore del pluriomicidio ai danni di impiegati aeroportuali israeliani a Fiumicino nel 1985. Tale eccezionale e prolungata situazione postbellica non ha precedenti nelle guerre degli stati occidentali, dove normalmente nel dopoguerra alle popolazioni civili viene permesso di ritornare alle proprie abitazioni pur dovendosi sottomettere ai nuovi governi.

Guerre, stragi, attentati terroristici e tentativi di pace si sono alternati negli anni, istigati o falliti sempre per un evento o un pretesto più o meno fortuiti o ricercati, quasi che una diabolica regia avesse voluto allontanare la pace mentre decine di migliaia di nuovi coloni continuavano di anno in anno ad arrivare in Israele, insediandosi stabilmente nelle aree palestinesi: la proclamazione unilaterale di Gerusalemme capitale mentre il presidente americano Carter si prodigava per una pace definitiva (1980); la strage dei rifugiati di Sabra e Shatila (1982); assegnazioni di terreni in Cisgiordania e Gaza ai coloni israeliani anche dopo gli accordi di Oslo, che destinavano tali aree all’Autorità Nazionale Palestinese (1993); l’assassinio del presidente Rabin, Nobel per la pace (1995); la riapertura di un antico tunnel sotterraneo (1996) e la provocatoria visita alla spianata delle Moschee (2000); il fallimento della pacificazione per il 5% di territorio negato ai palestinesi (2000); la costruzione del Muro divisorio (2002) e, da ultimo, l’embargo (2007) e la chiusura dei valichi con la Striscia di Gaza dopo lo sgradito successo elettorale del movimento estremista Hamas, che ha poi provocato l’esecrabile lancio di razzi nonché la sproporzionata reazione israeliana di questi giorni.

Senza soffermarsi sulle testimonianze giornalistiche, tutte da dimostrare, dei colpi di cannone volontariamente indirizzati su sedi di rifugiati, tuttavia lo stesso lancio di bombe incendiarie, sia pure legalizzato sui campi di battaglia, in “una prigione a cielo aperto” come la Striscia di Gaza - una fascia costiera confinante con Israele per 51 km e a SE con l’Egitto per 11 - abitata da circa un milione e mezzo di persone, è uno strumento di strage per cittadini innocenti e indifesi.

Conseguentemente, in chiusura, sarebbe bene cominciare a chiedersi, quello che stranamente la diplomazia occidentale non sembra fare, cioè se, insieme ai terroristi di Hamas, talvolta uccisi con le proprie famiglie, anche gli eventuali responsabili di queste atrocità militari saranno chiamati a risponderne a fine conflitto di fronte ad un tribunale penale internazionale, come ad esempio, senza scomodare i fantasmi di un lontano passato, recentemente è avvenuto per il leader serbo Milosevic, oppure dovremo nuovamente ritrovare premier di uno stato filo-occidentale uno degli indiretti corresponsabili di un massacro, quale quello di Sabra e Shatila?





Questo è un comunicato stampa pubblicato il 20-01-2009 alle 01:01 sul giornale del 19 gennaio 2009 - 6447 letture

In questo articolo si parla di politica, ettore baldetti, palestina





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