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Immigrazione: quanti racconti da mio padre...

3' di lettura Senigallia 30/11/-0001 -
Leggo sempre con molto interesse gli articoli pubblicati dalla sig.na Giulia Angeletti riguardo lo stato d'animo e le condizioni sociali di alcuni immigrati presenti nella nostra amata terra senigalliese.
Non considero affatto questo tipo di articoli "banali" come ho letto in qualche commento ma, anzi, li vedo come uno stimolo per profonde ed acute riflessioni che, magari, potrebbero risvegliare lo stato d'animo e la capacità di fare di qualche politico "stanco" o "sordo" davanti al prospetto di questi problemi.

di Ruben Serrani
rubens@vsmail.it


Spero innanzitutto che la sig.na Giulia non si arrabbi se, per una volta, mi permetto di "sforare" in un campo che non è il mio, "invadendo" intellettivamente il raccolto da lei fin qui ben seminato.

Vedo, innanzitutto, sia nei suoi articoli che in tanti servizi, anche televisivi, tanto "buonismo" che, a mio avviso, non sempre può portare del vero bene a chi è ospite nella nostra terra.

Ricordo bene, fin da quando ero piccolo, e ne sono passati di anni, i racconti di mio padre, a volte severo ma sempre giusto e comprensivo, che, tanti anni fa, seguendo una strada sempre impervia e tortuosa, decise di spostarsi dalla nostra regione in quel di Milano, allora come oggi "terra promessa" per chi aveva buona volontà e voglia di fare; chissà... forse anche allora c'erano le polveri sottili e la frenesia, ma, tenga ben presente la sig.na Raffaella, che tutto questo "gran fare" che sembra così facilmente condannare, tipico di alcune regioni di questo paese, è stato il "volano" e la "forza motore" che ha trasformato, dalla fine della guerra ad oggi, un paese alla deriva come l'Italia in una terra da cui la gente non fugge più, ma, anzi, viene accolta.

Ma tornando al mio discorso, ed ai racconti del mio genitore, ecco che vengo a toccare un punto a me molto caro: le regole.
L'azienda di Milano in cui egli lavorava, veniva, a suo tempo, visitata da una consorella svizzera, a tutt'oggi multinazionale nel suo settore, due volte l'anno e gli ispettori, ogni volta, sceglievano gli operai che ritenevano più validi ed offrivano loro di andare a lavorare a Solothurn, regione già allora super-industrializzata e ricca di benessere.

Come detto, erano "loro" a scegliere chi poteva andare e chi no, e li fornivano di documenti per passare la frontiera. Qui si veniva catapultati in un mondo cento volte più frenetico di quello da cui si arrivava, ma la prima cosa da imparare era la giusta condotta da tenere in terra straniera, l'obbligo di corsi intensivi di lingua, il divieto di frequentare certi tipi di locali, leggi e regole severissime.

Ma di quelle regole "toste" mio padre porta un ottimo ricordo, e quando oggi vede le strade delle nostre città invase da gente senza cultura democratica, perdigiorno molto spesso dediti all'alcool, alla droga e alla delinquenza, che reclamano case e diritti che al loro paese vengono negati, come se qui tutto fosse dovuto.

Ecco allora che egli mostra con orgoglio il diploma di merito rilasciato a suo tempo dallo Stato Svizzero e quello dell'azienda in cui lavorava, tutti titoli conquistati "sul campo" e non avuti con pretese.

Spero che a nessuno venga in mente di darmi del razzista, perché, da buon figlio di emigranti, sono il primo a capire eventuali problemi e a porgere la mano a chi ha veramente bisogno ma, dall'alto dell'esperienza vissuta, sono anche il primo a chiedere delle regole chiare e precise a cui nessuno si possa e/o si debba sottrarre ed una volta adempiuto ai doveri allora, e solo allora, potremo parlare di "diritti" e di "integrazione".

   

EV




Questo è un articolo pubblicato il 30-11--0001 alle 00:00 sul giornale del 08 gennaio 2007 - 2211 letture

In questo articolo si parla di immigrati, ruben serrani

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