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la storia ritrovata: Jan Palach: la torcia numero uno

4' di lettura Senigallia 30/11/-0001 -
La “Primavera di Praga” ebbe inizio nel gennaio del 1968, quando il segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, Antonin Novotny, un superstite dell’epoca staliniana, venne rimosso dalla sua carica e sostituito da Aleksander Dubcek, leader dell’ala innovatrice.

di Paolo Battisti
Bel-ami@vsmail.it


Dubcek, premuto dall’opinione pubblica, e appoggiato con entusiasmo dagli studenti, dagli operai e dagli intellettuali, introdusse varie riforme di natura democratica (pluralismo politico, libertà di stampa) e spinse il processo di rinnovamento fino a limiti impensabili per quel periodo.
I sovietici (che annoveravano la Cecoslovacchia tra i suoi paesi satellite), preoccupati di poter perdere la propria influenza e il controllo della situazione, tentarono di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di liberalizzazione, ma non ci riuscirono.
E allora il 21 agosto 1968, le truppe dell’URSS e di quattro altri paesi del Patto di Varsavia (associazione politico-militare formata da l’Unione Sovietica e dai paesi comunisti dell’est europeo) invasero Praga e il resto del paese (la versione ufficiale del regime comunista sovietico fu quella di “aiuto fraterno”). La “Primavera di Praga” ebbe quindi vita brevissima, e venne repressa con la forza; Dubcek fu arrestato e venne formato un governo filosovietico.

Dopo quasi 5 mesi di occupazione militare, Il 16 gennaio del 1969, nella storica e centrale piazza San Venceslao, a Praga, un giovane studente di filosofia, Jan Palach,in segno di protesta, si cosparse di benzina e si diede fuoco.
Da quel giorno Palach diventò uno dei simboli più significativi di una Cecoslovacchia silenziosa e angosciata. I suoi funerali, celebrati il 25 gennaio 1969, vennero seguiti da quasi un milione di persone.
Jan Palach faceva parte di un gruppo di ragazzi, che avevano deciso di immolarsi per attirare l'attenzione di tutto il mondo su quell’occupazione militare che i sovietici volevano far apparire come dettata dalla volontà popolare.
Il gruppo politico cui apparteneva, seppur clandestino, non era da considerarsi un gruppo anticomunista.

Il suo intento primario non era il ritiro delle truppe, piuttosto la fine immediata della censura sulla stampa. Almeno altre sette persone, in Cecoslovacchia, si immolarono come lui (tra cui il fraterno amico Jan Zajíc), per la stessa causa, ma, colpa anche della censura, le notizie che si ebbero al riguardo furono assai scarse, visto che i giornali e le televisioni oscurarono questi atti.
Anche la Chiesa Cattolica, notoriamente contraria al suicidio, difese il gesto estremo compiuto da Palach, affermando che: "Un suicida in certi casi non scende all'Inferno" e che "non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si toglie il suo bene supremo, la vita".

Il giorno che morì, Jan Palach portava con se uno zaino che non volle che fosse bruciato insieme a lui.
Infatti lasciò cadere la cartella pochi metri prima di darsi fuoco; al suo interno vennero rinvenuti degli appunti e degli articoli, che furono considerati una sorta di testamento dei suoi pensieri politici.
Tra le dichiarazioni trovate e meritorie di essere riportate, spicca questa:
"Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo.
Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa.
Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana.
Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zprav (giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà".
Firmato: la torcia numero uno.

La sua tomba divenne presto un luogo di culto, dove i dissidenti del regime comunista andavano a porgere il loro silenzioso saluto in segno di protesta contro la dittatura. Le autorità cecoslovacche, preoccupate per questo crescente fenomeno di massa, decisero, nel 1973, di allontanare le spoglie di Palach e traslare i resti del suo corpo a Vsetaty, a pochi chilometri dal suo luogo di nascita.
Dopo il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la figura di Palach, messa in ombra da decenni di dittatura, venne rivalutata, al punto che nel 1990 il presidente della Repubblica Cecoslovacca Vaclav Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà.
Oggi, una moltitudine di circoli e associazioni studentesche portano il suo nome e lo ricordano come un martire, morto per difendere i suoi ideali.
Dal mese di ottobre del 1990 le sue ceneri si trovano nel cimitero di Olsany, a Praga.





Questo è un articolo pubblicato il 30-11--0001 alle 00:00 sul giornale del 26 novembre 2005 - 8363 letture

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