statistiche accessi

x

la storia ritrovata: Mastro Titta, il boia dei boia

5' di lettura Senigallia 30/11/-0001 -
Nella città di Roma, dal 1796 al 1864, a mettere in pratica le frequenti esecuzioni “papali” operò un unico individuo, Giovanni Battista Bugatti, il cui nomignolo “mastro Titta” divenne leggendario: nel corso di un'attività durata 68 anni, mise in atto 516 condanne (o giustizie, come si chiamavano allora).

di Bel Ami


Negli anni in cui Roma era governata dai vari Papa Re (che si succedettero fino al 1870), le pubbliche esecuzioni nelle piazze della città erano uno degli spettacoli preferiti dalla popolazione locale, che trovava queste manifestazioni interessanti ed educative (poi spiegheremo perché) a tal punto da portare i propri figli ad assistere all'evento.
Le leggi dello Stato della Chiesa, istituite su elementi di codice civile e religioso, erano tanto rigide con il popolo e con i liberali quanto erano permissive con la nobiltà, soprattutto quella imparentata con esponenti dell’alto clero.
Nella città di Roma, dal 1796 al 1864, a mettere in pratica le frequenti esecuzioni “papali” operò un unico individuo, Giovanni Battista Bugatti, il cui nomignolo “mastro Titta” divenne leggendario: nel corso di un'attività durata 68 anni, mise in atto 516 condanne (o giustizie, come si chiamavano allora).
È da lui che il termine "Mastro Titta" cominciò ad essere usato a Roma come sinonimo di boia. E pur professando un mestiere terrificante, svolgeva il suo dovere con distacco e una professionalità esemplari.
Mastro Titta sbarcava il lunario come verniciatore d'ombrelli, un'attività per la quale possedeva una bottega nel quartiere di Borgo (dove abitava), situata sulla sponda occidentale del Tevere, non distante dai palazzi pontifici.
Il “Boia di Roma” andò in pensione all'età di 85 anni, e per i cinque anni che ancora visse gli fu riconosciuta una pensione per i lunghissimi servizi svolti (come da documento ufficiale), servizi che prendeva molto sul serio: all'alba dei giorni fatidici - la maggior parte delle esecuzioni aveva luogo di mattina presto - indossava un mantello scarlatto, e solennemente "passava ponte" (andava nella sponda orientale del Tevere, dove si tenevano le esecuzioni). Teneva anche un registro della sua attività, nel quale scrupolosamente riportava date, nomi e motivi per cui veniva richiesta la sua opera.
Così annotava agli esordi della sua attività: “Esordii nella mia carriera di giustiziere di sua santità impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati”.
Le tecniche usate da Mastro Titta per svolgere il suo lavoro comprendevano la decapitazione con la classica scure, la ghigliottina (un “ricordo” della Rivoluzione Francese), l'impiccagione e, fino al secondo decennio dell'800, persino lo squartamento con la mazza (una "pena aggiuntiva" comminata ai rei di crimini particolarmente efferati, come ad esempio, l'omicidio di un prelato) che veniva inflitta dopo la decapitazione, sul corpo ormai privo di testa.
Le pubbliche esecuzioni si tenevano in luoghi fissi; i più “gettonati” erano Piazza del Popolo, con la vasta platea sotto il Pincio, o la piazzetta del ponte dirimpetto Castel Sant’Angelo.
Poco prima che un'esecuzione avesse luogo, diverse chiese affiggevano pubblicamente locandine nelle quali si invitavano i fedeli a pregare per le anime dei condannati. Questo era anche il modo in cui la popolazione veniva a conoscenza dell’evento.
Ma non solo la plebe romana era incuriosita da queste “manifestazioni”: anche celebri autori inglesi lasciarono una descrizione dell'opera di mastro Titta.
George Gordon Byron si trovava a Piazza del Popolo il 19 maggio 1817, mentre tre condannati venivano decapitati ("...per omicidj e grassazioni", ebbe a scrivere il boia); il poeta raccontò questa esperienza in una lettera indirizzata al suo editore.
Un ricordo molto più dettagliato, però, lo lasciò Charles Dickens. Il romanziere nel 1845 fece un viaggio in Italia; fra i suoi ricordi di Roma, descrisse l'esecuzione di un criminale in "Pictures of Italy" (1846).
Come osservava Dickens, in caso di decapitazione la testa veniva subito mostrata alla folla dai quattro lati del patibolo, prima di essere lasciata in vista per qualche tempo, e in seguito infilzata alla cima di un palo.



Quando si svolgevano le esecuzioni in pubblico era tradizione consolidata di molti uomini presenti di portare ad assistere all’evento i propri figli maschi per mostrare loro ogni dettaglio della cerimonia: proprio nel momento in cui veniva giù la lama (...e la testa) o quando, in caso di impiccagione, il condannato rimaneva appeso, era consuetudine dare loro uno sganassone (cioè una sberla), come tangibile ricordo di ciò che sarebbe potuto loro capitare il giorno che si fossero messi nei guai con la giustizia (e fra i ceti sociali più bassi, a quei tempi, ciò accadeva molto spesso).
Un altro elemento della lugubre cerimonia era rappresentato dalla processione dei frati che accompagnavano i condannati fin sotto il patibolo, indossando un saio nero con un cappuccio a punta. Dopo le esecuzioni, i stessi frati portavano via i corpi per seppellirli nel chiostro della chiesa preposta. Essi appartenevano alla Confraternita della Misericordia, una congregazione fiorentina che secoli addietro aveva avuto Michelangelo come membro. La loro sede in Roma era presso la chiesa di San Giovanni Decollato, in prossimità di via dei Cerchi, uno dei luoghi dove si tenevano le esecuzioni.


Fabrizi interpreta Mastro Titta





Questo è un articolo pubblicato il 30-11--0001 alle 00:00 sul giornale del 04 dicembre 2004 - 22757 letture

In questo articolo si parla di

Leggi gli altri articoli della rubrica la storia ritrovata





logoEV
logoEV
logoEV